lunedì 23 maggio 2011

Lo zen e l'arte della pesca



Paolo Triestino e Nicola Pistoia ancora insieme, scaramanticamente indissolubili come una squadra vincente. Stavolta, aggiungendo al loro pool di mattatori quell’elemento «primordiale» dal quale partì tutto: la scrittura di Edoardo Erba, che li fece decollare come coppia di scena e di successo in Muratori, e che qui si presta a una partitura su misura per loro. Trote nuota proprio tra la specularità dei due caratteri - emotivo e impetuoso Triestino, burbero e lunare Pistoia -, tessendo una cronaca del quotidiano, dove irrompe il destino che smaglia le vite di entrambi. Il nodo di scambio è un referto clinico che finisce nelle mani del meccanico Maurizio (Triestino) invece che in quelle dell’operaio Luigi (Pistoia). Sconvolto all’idea di avere pochi mesi di vita, Maurizio confessa i suoi tradimenti alla moglie (Elisabetta De Vito) e manda al diavolo un cliente della sua officina. Poi si accorge dell’errore e fa un rapido dietrofront nei suoi panni di piccolo imprenditore arricchito e cafoncello. Non prima però di farsi venire uno scrupolo di coscienza e di andare a cercare lo sfortunato destinatario di quelle analisi.
Lo trova a pesca sull’Aniene, in un luogo appartato e distante dalla frenesia della città e dei suoi consumi. In un tempo altro, dove possono affiorare memorie d’infanzia, la pace dell’anima come la vorresti, i sogni da far galleggiare sull’acqua e magari pescarli con l’esca giusta come si fa con le trote. «Nun aspetto er pesce - spiega Luigi -. Aspetto che diventi perfetto». È lo zen e l’arte della pesca, è la crepa nell’inferno del vivere, del lavorare in fabbrica a respirare diossina, e intravedere un’altra esistenza, un altrove migliore. Ma non c’è redenzione possibile per Luigi, e il senso dell’incontro arriva anche a Maurizio, che - nonostante sembri ricadere nel suo vivere frastornato e spaccone -, ne è stato invece irrimediabilmente toccato.
Erba muove con cautela i fili tematici della malattia e della morte, in una trama dove il romanesco dei protagonisti smorza il dramma, va verso la filosofia smagata del popolino. Quella agroamara e malinconica dei personaggi alla Carlo Verdone piuttosto che quella insidiosa e sulfurea dei versi di Gioachino Belli. C’è un po’ di mestiere, forse, sia nella struttura drammaturgica, sia nel gioco di rimbalzi fra una coppia di attori sbrigliata e irresistibile. Una linea di rimmel che sottolinea uno sguardo verso il basso, ma il colpo d’ala arriva con l’immagine del pescatore di corpi, che riporta ad altri naufraghi e altre derive. Qui si apre il grandangolo di un senso più profondo, di una comunanza di drammi non solo privati ma allargata a un’umanità smarrita. Ben sottolineata dai gorgoglii sonori di Hubert Westkemper e dall’interessante scenografia di Alessandra Ricci, con quei murales allucinati da città folle e poi le traballanti pas- serelle di legno e tubi innocenti che fanno da graticcio esistenziale a Pistoia e Triestino.

Rossella Battisti

da L'Unità, sabato 14/5/2011

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